Sullo stesso argomento
“Between, VII, 14, 2017
Programma
Programma sessioni parallele
In memoria di Remo Ceserani.
Tema
«Mentre il nostro tempo perde il tragico guadagna la disperazione», scriveva Søren Kierkegaard nel 1843. Da part e nostra, viviamo anni in cui il tragico sembra spostarsi dai teatri alle strade, dalla rappresentazione drammatica allo spazio della storia e della cronaca quotidiana, pronto a sua volta a trasformarsi in spettacolo, in oggetto di consumo mediatico, un fenomeno che oggi ha subito un’accelerazione vertiginosa ma che è tipico della società di massa fin dai suoi albori, con significative anticipazioni già nell’Ottocento. Sembra dunque particolarmente urgente metterne a fuoco il ruolo, le forme e i significati nell’orizzonte culturale contemporaneo, nella convinzione, già suggerita da Peter Szondi, che non esista il tragico, almeno non come essenza, ma come modo metamorfico e transtorico che attraversa diverse epoche e forme di vita. Stiamo dunque vivendo una tragedia della cultura (Simmel) come quella che si respirava all’inizio del Ventesimo secolo, con la nuvola nera che si portava dietro, o piuttosto una condizione politica, sociale o addirittura psicologica?
Non a caso, fin dall’antichità, la tragedia oscilla tra i poli dialettici della menzogna e della verità. Da un lato le menzogne simili al vero, fonte di mistificazione ontologica e politica, stigmatizzate dalla tradizione platonica, dall’altro la coscienza tragica come capacità e coraggio di prendere conoscenza, di proporre un interrogativo generale sulla verità profonda della condizione umana, di questa «logica illogica» che presiede alle nostre attività di uomini (Vernant). Dietro la tragedia vediamo dunque profilarsi una serie di possibili verità, velate da quell’esperienza immaginaria che è la costruzione e la ricezione estetica di una trama. Possono essere verità di natura politica, secondo le quali, come osservano ad esempio Lanza e Canfora, la costante demonizzazione della figura del tiranno ne rivelerebbe una profonda essenza democratica. Oppure verità di ordine etico e antropologico, come quelle rilevate da René Girard e ricondotte al rito sacrificale. O ancora verità di ambito filosofico che fanno leva sul confronto tra tragico e dialettica, che parte da Hegel («la dialettica dell’eticità» dell’Antigone, per esempio) e attraversa la modernità, fino a giungere alle teorizzazioni di Szondi. In tutti i casi, l’azione umana descritta dalla tragedia non si attesta mai come realtà stabile ma come problema, domanda senza risposta, enigma i cui doppi sensi devono essere incessantemente decifrati.
Altrettanto varia e dinamica è l’interpretazione dell’universo metafisico racchiuso nella tragedia (si veda ad esempio il giovane Lukács), che pure fa del confronto tra uomini e dèi uno dei motivi portanti. In questo quadro gioca un ruolo cruciale la vicenda di Cristo, considerata da Kierkegaard l’ultima tragedia possibile, riscritta e rielaborata in vari modi e in tutte le arti nel corso del tempo, mentre Jaspers (come più tardi Steiner) sostiene l’impossibilità di una vera tragedia cristiana, alimentando così un dibattito ancora aperto e irrisolto .
Dalla tragedia greca a quella barocca, da Shakespeare al dramma borghese, dagli adattamenti romantici a quelli novecenteschi, la tragedia vive così innumerevoli metamorfosi, nella prassi drammatica e nella riflessione teorica che l’accompagna. Quali tragedie sono ancora possibili, dunque, nella modernità? Con quali occhi guardare oggi alle tragedie del passato? Quali insegnamenti ricavare per leggere il presente?
Sono questi e molti altri i temi che costituiranno il nucleo del convegno, con un’attenzione particolare all’attraversamento dei generi e delle forme espressive, dal teatro al romanzo, dal cinema alle arti visive, dal melodramma alla storia.
Linee di ricerca
Si propongono qui alcune direzioni di ricerca, alle quali i relatori sono tenuti a conformarsi all’atto della proposta. Non saranno infatti accettate comunicazioni che non abbiano un’evidente pertinenza rispetto al tema del convegno e a tali linee-guida:
- Figure del mito. Grandi miti classici sono nati nei teatri greci: figure tragiche della grandezza di Medea, Edipo, Oreste o Antigone sono emerse da lì, e poi nel tempo hanno mutato volto e significato, indossato maschere diverse, perso o guadagnato potere. Che cosa resta di loro nei secoli? Perché e come hanno continuato a parlarci dalle pagine di Corneille e di Pasolini, di Alfieri o di Grillparzer, o dagli adattamenti registici di Ronconi o Julian Beck e Judith Malina? Altre figure mitiche sono nate poi nei secoli successivi (si pensi a Shakespeare di cui nel 2016 ricorre il quarto centenario della morte, o agli autori del Siglo de oro spagnolo, fino poi al Novecento): ma cosa ci raccontano Amleto e Madre Coraggio, Macbeth e Godot?
- La condizione dell’eroe tragico. In epoca romantica il concetto stesso di tragico vive una ridefinizione sostanziale, dialoga con l’idea di sublime, fa i conti con lo scarto metafisico, scava nel conflitto tra l’idea di libertà e l’irriducibile realtà del negativo, e addirittura, con Hölderlin, ambisce al vuoto. Non è più solo un genere (benché sia anche un genere rinnovato col dramma romantico di Goethe o Schiller), ma una condizione esistenziale: quella del Viandante su un mare di nebbia, del Prometeo goethiano, del genio romantico e persino, più tardi, dell’eroe nietzschiano che «si volge con immobile sguardo all’immagine totale del mondo, cercando di cogliere in essa, con simpatetico sentimento d’amore, l’eterna sofferenza come sofferenza propria» (La nascita della tragedia).
- L’immaginazione melodrammatica. Ad un’epoca preromantica Peter Brooks fa risalire invece quella che chiama «immaginazione melodrammatica», concretizzata nei generi del melodramma in senso stretto e del romanzo gotico. La «perdita del sacro e le pretese del razionalismo» ne sono, a suo dire, il movente. Tuttavia, nel corso degli anni, la tenuta delle componenti melodrammatiche pare ridotta o comunque dirottata verso forme diverse di paraletteratura – pure a tratti nobilitata nella storia della critica (si pensi alla recente narrativa distopica). Forse però è in altre arti che il melodrammatico sopravvive fino ai nostri giorni, e in particolare nel cinema, nel quale (a partire da Ophüls, Mankiewicz, William Dieterle, Douglas Sirk, passando per Fassbinder fino ad arrivare a Almodóvar o a Lars von Trier), questa tonalità è conservata e rivitalizzata.
- Il romanzo del Novecento. Il romanzo borghese, fin dalla sua nascita, sembra essere un genere fortemente antitragico, in grado di superare o addirittura ribaltare i temi tipici della tragedia. Eppure, a partire da Dostoevskij e poi da Kafka, i grandi temi tragici tornano a popolare le pagine dei libri. Ma ci sono solo elementi di continuità? È stato ipotizzato come il conflitto tra bene e male tipico della tragedia, nel romanzo del Novecento viri verso un ragionamento centrato esclusivamente sul male. Se non una morte della tragedia, dunque, c’è stata almeno, nel Novecento, una sua ulteriore metamorfosi, come ammette lo stesso Steiner: «O, forse, la tragedia ha solamente mutato stile e convenzioni».
- La violenza e il sacro. La violenza e il sacro sono o dovrebbero essere strettamente legati, come ricorda Girard: «La crisi sacrificale, ossia la perdita del sacrificio, vuol dire perdita della differenza tra violenza impura e violenza purificatrice». Ma violenza e sacro sono strettamente e anche forzosamente legati nei fatti di cronaca che riempiono le pagine dei quotidiani di questi anni, nelle quali campeggia costantemente la parola tragedia.
- La cronaca, la storia e il tragico. Cosa distingue una narrazione cronachistica del tragico e dei suoi presupposti da un racconto mitico e da una riflessione letteraria? Lo scrittore è davvero un impostore che può inventare la più grande tragedia della storia, come l’Enric Marco raccontato da Javier Cercas o la prossimità con la cronaca, il saggio, il giornalismo è destinata a limitarne la libertà creativa? Qual è oggi nella letteratura la dimensione del dolore tragico (rituali, stereotipi, formule)?
- La condizione tragica. Negli ultimi decenni la tragedia è diventata anche un modo di pensare la politica. È tragica la condizione di chi vive in una società nella quale i conflitti si accumulano senza risolversi in un dialogo o in un’azione condivisa; è tragica la cronaca politica dei nostri anni. C’è un elemento tragico, anti-dialettico, sia nel fondamentalismo di chi lotta per imporre un modello sociale violento, sia nell’atteggiamento opposto di chi non crede più a nulla. La letteratura degli ultimi anni ha spesso rappresentato questa condizione.
Comitato scientifico
Con la collaborazione di: Elena Sbrojavacca, Veronica Tabaglio
Organizzatori
Università Ca’ Foscari Venezia. Dipartimento di Studi Umanistici.Dipartimento di Studi Linguistici Culturali Comparati